Parole italiane inventate da scrittori, che oggi tutti usano

Vi assicuriamo che molti di questi vocaboli li state usando senza neanche saperlo: “tramezzino” vi dice niente?
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Senza D’Annunzio niente tramezzini. Non esisterebbero. O – perlomeno – non esisterebbe la parola per ordinarli al tavolino di un bar.

La storia è abbastanza nota, ed è questa: siamo nel 1925, a Torino, al Caffè Mulassano. Il poeta ordina uno di quei panini imbottiti che sono l’orgoglio del posto, la specialità della casa, sono farciti con burro e acciughe. “Sandwich”, vengono chiamati, con termine preso in prestito dall’inglese (a sua volta, dal nome di John Montagu, conte di Sandwich, che – si racconta – si faceva servire al tavolo dei panini per poter continuare a giocare a carte… ma questa è un’altra storia).

È noto che D’Annunzio proprio non poteva sopportare i termini importati dall’estero. Così, durante una visita al Mulassano, esclamò: “Ci vorrebbe proprio uno di quei golosi tramezzini…”.
Voilà, il neologismo è servito, e subito incontra una grande fortuna. “Tramezzino”, da “tramezzo”, ad indicare la pausa tra la colazione e il pranzo (un po’ come il “brunch”; termine di fronte al quale – senz’altro – il nostro poeta sarebbe inorridito).

Non solo D’Annunzio

Parole inventate da scrittori
Illustrazione di Ginnie Hsu

Sempre a D’Annunzio si devono i termini “velivolo” e “fusoliera”: oltre che letterato, il nostro era anche aviatore. Ed anche appassionato calciatore. A lui, infatti, si deve l’invenzione dello “scudetto” durante l’avventura di Fiume, il 7 febbraio 1920. Venne organizzata una partita di calcio tra una squadra di militari italiani e una rappresentanza di civili del posto. Le cronache non riportano il risultato finale del bizzarro match: quel che è certo è che sulle maglie azzurre dell’italica compagine venne cucito per la prima volta lo scudetto tricolore. Lo stesso con cui, a partire dal 1924, iniziarono a venire premiate le squadre vincitrici del campionato di serie A.

Quello di D’Annunzio è forse il caso più emblematico e noto di coniatore di termini nuovi, che s’impongono per la loro fortuna nel vocabolario comune. Un caso, però, tutt’altro che isolato. Tanto che uno dei più grandi linguisti italiani, Bruno Migliorini, si è inventato un intero ramo di studi dedicato ai neologismi “d’autore” e alla loro penetrazione nella lingua: l’onomaturgia.

Tra gli onomaturghi (ovvero, i coniatori illustri di nuove parole) di maggior successo non si può non citare Dante: le sue tre cantiche della “Commedia” sono una miniera di nuove parole, qualcuna di scarso successo (come “indiarsi”, ovvero “diventare Dio”, “inmiliarsi”: moltiplicarsi per migliaia; “inforsarsi”: diventare dubbio), qualcuna di enorme: l’aggettivo “molesto” – in pochi lo sanno – è un’invenzione di Dante, che conia la parola a partire dal termine latino. Così come il verbo “inurbarsi”, un termine tecnico prezioso per sociologi, architetti, urbanisti (naturalmente) e storici. O, ancora, l’espressione “accanirsi”.

E c’è posto anche per Giacomo Leopardi. Il poeta di Recanati è il padre di nuove parole – non così diffuse e percepite come di tono elevato, anche oggi – come “erompere”, “incombere”, “improbo”, “fratricida”.

La schiera dei neologismi dimenticati

Il successo non è per tutti; spesso, anzi, è per pochissimi, anche nel mondo dei neologismi. Per cui, per ogni invenzione che finisce – letteralmente – sulla bocca di tutti, ci sono schiere e schiere di nuove parole d’autore, che restano però sole solette, isolate nelle loro opere, dimenticate da quasi tutti.

Alessandro Manzoni, sul modello del “parafulmine”, s’inventò il termine “paracalunnia”.
Vittorio Alfieri forgiò l’aggettivo “odiosamato”, per riferirsi a qualcosa che appunto si odia e si ama allo stesso tempo (un sentimento diffuso non come – ahinoi! – la parola inventata dallo scrittore).
Dalla fucina creativa dei futuristi italiani, all’inizio del Novecento, uscirono parole come “mimismagia” e “motorumorista”.
Giovannino Guareschi, il papà di Don Camillo e Peppone, s’inventò l’insulto “trinariciuto”, ovvero dotato di tre narici, quindi mostruoso.
E – per concludere il nostro non esaustivo elenco – Carlo Emilio Gadda si riferiva ai lombardi con il termine di “ossibuchiveri”.

Illustrazione di Ginnie Hsu

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