La lingua dei marinai: la ricchezza del lessico

La lingua dei marinai è ricca, specifica e dettagliata: scopriamola assieme e vediamo come inserirla nell’italiano di tutti i giorni.
Linguaggio nautico

Illustrazione di Marta Duarte Dias

In un’introduzione a un’antologia italiana dedicata agli studenti del ginnasio, Giovanni Pascoli scrisse della necessità di riscoprire un lessico vario, “colorato”, rispetto al “grigiore” di quella lingua – quasi imposta agli scrittori, a suo dire – “che a mano a mano diviene numerata e scolorita”.

Il poeta romagnolo invitava a prendere esempio dai marinai, dal loro gergo così specifico, ricco e dettagliato, e a ingegnarsi per “mettere in circolazione le parole che da sole esprimono subito ciò che da altri è espresso con tre o quattro fiamme o tre o quattro lanterne: voglio dire con un sostantivo e tre o quattro aggettivi”.

Le corde e le parole

L’esempio che porta è quello delle corde, che a bordo sono rinominate cime. Tante ve ne sono su una barca a vela e ognuna di loro ha un nome diverso a seconda della funzione.
La sagola e il merlino, ad esempio, sono cime sottili usate solitamente per le bandiere, lo scandaglio o per le piccole attrezzature; la gomena è molto spessa invece, è destinata all’ormeggio (viene avvolta alle bitte sulle banchine, quelle che per tutti gli altri sono semplici “colonne” a cui legare una “corda”).
O ancora, le sartie, cime che sorreggono gli alberi della barca; o le drizze, utili a issare le vele. Va da sé che ci siano sottotipi di drizze, ancor più specifici, come i bracci o le scotte, usati per governare le vele.
Sono molte, di conseguenza, anche le espressioni per esprimerne le attività: avvolgere le cime si dice addugliare, unirne due tra loro ammanigliare; un nodo particolarmente stretto è detto assuccato, e una corda munita di un gancio non viene “agganciata” ma incocciata.
Se invece volete arrotolare una vela e fissarla per poi aver la possibilità di riaprirla tirando una cima dal basso, dovete incazzottare.

Pascoli si ferma alle corde – e se ne intuisce il motivo – ma avrebbe potuto continuare, giacché ogni singolo elemento su un’imbarcazione a vela è espresso con terminologie altre rispetto al linguaggio comune. Salire a bordo è come varcare la porta di un mondo in cui domina un vero e proprio sotto-linguaggio, che è pur sempre espresso in italiano, ma che risulta incomprensibile a chiunque non abbia gli strumenti per decifrarlo.

Il marinaio non parla come mangia

Come le cime, così le vele. Riferirsi a una vela usando semplicemente “vela” sarebbe insufficiente, forsanche inaccettabile nel circolo dell’equipaggio. Certamente di una vaghezza pari a quella di colui che alla domanda -“Cos’hai mangiato?”- rispondesse semplicemente -“Del cibo”.
“Vela” è un termine-scatola. E questa scatola contiene nomi più specifici, per funzione, posizione, forma o materiale: randa, fiocco, genoa, trinchetta, spinnaker, gennaker, maestra, tormentina (usata durante le tormente); e ancora, velaccio, velaccino (un tempo chiamato pappafico), controvelaccio, controvelaccino, e via dicendo.
Anche quello che potrebbe essere ingenuamente definito “angolo di una vela” ha un nome specifico, evidentemente irrinunciabile, che è bugna. E non è l’unica parte della vela ad aver meritato un nome ad hoc. Ce ne sono più di quanti l’umana comprensione sia pronta ad accettarne.

E sono solo la punta di un iceberg di un vocabolario terribilmente, e splendidamente, ricco.

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